No, io senza terra un ci sto… ci s’avea i peschi, ci s’avea d’ogni cosa, le mele, i fichi…

Un viaggio nelle campagne mezzadrili di Silvana Boni, attraverso i paesaggi della terra e del cibo. Dalla volontà di legare strettamente la sua vita ai campi, alla cultura di appartenenza, alla potente memoria della famiglia contadina nasce una narrazione carica di energia culturale, ricca di dettagli che rivelano il valore di conoscenze, capacità e pratiche preziose per progettare il nostro comune futuro.

Nel 2011 (progetto “Officina del racconto”) Silvana Boni ha raccontato la sua infanzia contadina, la famiglia mezzadrile, i poderi, la terra nel ciclo delle stagioni, la tavola e i cibi cucinati da sua nonna e sua madre. Il racconto ci guida attraverso i paesaggi di una forma di vita travolta dalle trasformazioni del 900, ma sempre capace di trasmettersi in eredità viva, ribelle e tenace, incarnata nella persona, nelle conoscenze, capacità e pratiche di Silvana.

La cultura contadina mezzadrile nella testimonianza di Silvana rivela le sue profonde energie ed i suoi valori: è scienza della terra, della varietà e diversità delle risorse, degli equilibri ecologici e sociali, dell’alimentazione sana, variata e saporita, della parsimonia e della condivisione.

Il racconto si apre con una dichiarazione di continuità. Al momento della rottura del contratto mezzadrile che corrisponde alla diaspora familiare, Silvana sceglie di non partire in città, restando legata alla terra nella quale è nata.

Una viva sequenza d’immagini legano e collegano i lavori della campagna alla tavola: le culture, le verdure, i cereali e i legumi, gli animali ed i frutti diventano piatti del quotidiano e della festa, vino, olio e pane, marmellate e panforti, arrosti morti e panzanelle, intinto, pane santo e polenta fritta…

La terra, la tavola, la famiglia contadina

Abbreviazioni: V. Valentina L. Zingari; S. Silvana Boni

No, io senza terra un ci sto… ci s’avea i peschi, ci s’avea ogni cosa…

V. Finito il contratto di mezzadria avete pensato di continuare con la terra? Lei si…
S. Io si l’ho comprata anche un pezzetto… il mi’ fratello gli ha continuato, l’era operaio agricolo ha continuato finché un è andato in pensione, gli ha un anno meno di me… la mi’ cognata un ci teneva tanto alla terra, quell’altra mi’ cognata lo stesso… ora vengan sempre laggiù indo’ ci ho i polli, c’è i cani, ci s’ha l’orto, quel pezzettino lo fanno quasi sempre loro… Io dissi: “no, io senza terra un ci sto.” Mi piace i polli, mi piace avere una cosa fatta da me, anche se l’è peggio, ma un me ne importa.
V. Cosa c’era come colture?
S. Grano, avena, fave, fagioli, cicerchie, ceci… si buttava ceci a staie capito, perché se ci dovevan toccare mezzi… anche i fagioli…c’era lo staio l’è 18 chili, era un cosino di legno… poi vino, olio, poi facevan l’orto. Frutti per noi. C’era le pere, c’era le pere giugnoline, c’era le pere da inverno (ora ce n’è rimaste poche perché nessuno le cura…) ci s’aveva i peschi, ci s’avea d’ogni cosa… le mele, i fichi… facevan marmellate…la frutta ci s’aveva…

Era una specie di panforte… 

S. Sennò facevano, gli avevano uno stampo, e gli mettevan i fichi (verdi) li mettevano aperti in uno stampo uno sopra l’altro con le noci dentro a strati, lo mettevano in forno un’ora (mezz’ora da una parte, mezz’ora dall’altra) quando avevano cotto il pane e i fagioli mettevano queste forme, e gli era il companatico… diventavano come una forma di formaggio, d’inverno e lo tagliavano a fette… se ne pigliava una fetta per uno, c’era noci pinoli icchè gli avevano, era una specie di panforte… si potrebbe fare ancora… era il companatico, si conservava tutto l’inverno, sopra ci mettevano la vaniglia, lo zucchero a velo, e rimaneva bianco. Lo chiudevano nella cassa, una cassa come quel divano, e lo tiravan fori per l’occasioni come quando venivano i fidanzati delle mie zie a fare all’amore a volte  rimanevano a cena la domenica e allora lo pigliavano dalla cassa e gliene davano.

Mezzo coniglio s’era 11 persone … e veniva arrosto morto, veniva un intintino… 

S. Mezzo coniglio s’era 11 persone! Poi la mi’ mamma lo faceva bene da mangiare e lo tagliava tutto a pezzettini poi faceva il battuto di salvia aglio e ramerino poi ci metteva il pepe e il sale poi gli faceva un buchino vicino all’osso e veniva “arrosto morto” e veniva un intintino… L’intinto, come dicono a Firenze… che gliera una cosa meravigliosa… perché lo faceva colorire da tutte le parti nella teglia: allora c’era il fornello, tu pigliavi la brace da i’ foco e lo mettevi nel fornello e con quella sventola dai e dai… quando l’era rosolato ci metteva due dita di vino, rosso e dopo per far l’intinto la prendeva un mezzo bicchiere un pochino di vino un po’ d’acqua e una puntina di farina e lo faceva ritirare… e veniva una cosa… gl’avrei fatto sentire com’era…! Poi friggevano le patate a tocchetto… ma quell’intinto! Lo sogno ancora! Però: du’ cucchiaiate di coniglio, du’ cucchiaiate di patate, du’ cucchiaiate d’intinto insomma… e si mangiava!

Si mangiava parecchio pane … e polenta!… o sennò condita co’ funghi… perché gli andavano a cercare i funghi, i pinaroli e li seccavan n’i’ camino…

S. Quest’altri altri giorni, o facevano delle frittatine poi l’arrotolavano co’ il pomodoro, pomodori ripieni co’i’ battuto e zucchine ripiene con la salsiccia (perché s’ammazzava i’ maiale, e allora le mettevan sott’olio), un uovo un po’ di formaggio e il ripieno delle zucche, facevano tutto un affare e lo mettevano nella zucca, in teglia sul fornello … quando c’era i pomodori li facevano  ripieni di tonno o di un battutino di aglio e prezzemolo e pangrattato e via!… I mangiari gli eran pochi … i’ baccalà! Quello sì, lo compravan sempre, costava poco. C’era sempre attaccato in salotto. A volte s’arrostiva e si mangiava così, ma l’era troppo salato! Si mangiava parecchio pane … e polenta! Un giorno sì e un giorno no, gli era polenta! Di granturco… qualche volta con l’aringa, anche quella un pezzettino così per uno, sennò olio e aceto o sennò condita co’ funghi (perché gli andavano a cercare i funghi, i pinaroli e li seccavan n’i’ camino) facevano il sugo coi funghi, o sennò anche co’i’ porro fatto rosellì coll’olio, la tagliavano a fette la pulenda e la condivan con l’olio, porro soffritto e formaggio. Era buono, sì…

Pane santo e polenta fritta… 

V. La polenta si faceva col granturco vostro?
S. Sì sì… s’andava a macinalla da’ i’ Papini dietro i’ poggio o alla Querciola, ma laggiù chiusero sicché s’andava da’i’ Papini che ci aveva i’ mulino, pe’ andare alle fonti, a Monteloro, e la sera una polenta così… poi co’i filo di rocchetto la tagliavan fine fine ne’ piatti e la mattina dopo la s’arrostiva… e si faceva i buchi, e si riempivan d’olio e si mangiava arrostita… una pulenda grande così… e la si mangiava vai la pulenda ! A volte in un modo, a volte in un altro… a volte poi la friggevano il giorno dopo icchè un s’era mangiato la mattina e lo friggevano e “‘i pane santo” si chiamava: pigliavano i’ pane , le fette d’ì pane le inzuppavan ni’ latte, poi le passavan nella farina e poi le friggevano: “‘i pane santo” si chiamava… una fettina abbastanza altina di pane e poi quelle belle fette di’ filone che si faceva da noi, le inzuppavan ni’ latte e nella farina e le friggevano: pane santo e polenta fritta.
S. Quando si faceva i’ pane e dicevano: oggi si fa le “panzanelle” … levavano un po’ di pasta e la friggevano. Pasta fritta. La tiravan fine fine, a bucherellini, la buttavan nell’olio, la rigiravano e l’era la panzanella. Se ne mangiavan uno, due, a seconda di quant’e l’avevan fatte grandi. Sempre tutto fritto nell’olio d’oliva, sempre. Se ne consumava un quintale anche un quintale e mezzo. L’olio un c’è mai mancato davvero! Mai mancato nulla per la verità, facendo piano però un mancava mai nulla… anche lo zucchero c’era sempre in casa! Non c’era i’ caffè perché un usava a que’ tempi! E facevano quello tostando i’ grano e quella pentola di quella broda nera la c’era! Era caffé anche quello. Una bella pentola sull’acquaio e si pigliava quella…

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Un racconto di Silvana Boni. Una voce dalle campagne mezzadrili
Un racconto di Silvana Boni in dialogo con Valentina Lapiccirella Zingari, nell’ambito del progetto « Officina del racconto », 7 Ottobre 2011, Fiesole Villa Monetti
Questo paesaggio narrativo è composto di elementi di documentazione raccolti ed analizzati in due diversi contesti di ricerca. Il primo incontro con Silvana è avvenuto nell’autunno del 2011 ed ha segnato l’inizio di un’intensa collaborazione ed amicizia. Un secondo momento di documentazione si è svolto nel 2014, in preparazione dell’opera multimediale “Raccogliere, conoscere, cucinare”, e del filmato “Sotto gli ulivi”.
Mentre la registrazione sonora da cui è tratta la selezione di frammenti è avvenuta durante il nostro primo incontro, nel 2011, le immagini sono state riprese durante un incontro di documentazione avvenuto nella primavera del 2014.

Francesco Perna, durante una conversazione registrata nella sua farmacia (progetto “Officina del racconto”, 2011) mi aveva parlato di Silvana come di una personalità antica e familiare, quasi un mito di fondazione del contado fiesolano. Personaggio resistente e di confine, Silvana è sempre vestita alla moda contadina, con il grembiule blu e le scarpe grosse.
Silvana mi riceve nella cucina, dove registro il suo racconto, popolato da molti oggetti e una ricca documentazione costituita da fotografie di famiglia e libretti colonici preparati in previsione del mio arrivo e dell’intervista. Il racconto si fa testimonianza di una delle famiglie mezzadrili che con il loro lavoro e la loro cultura hanno costruito e curato, palmo a palmo, le terre ed i paesaggi fiesolani. Un racconto solenne, testamento di un’epoca e di una forma di vita.

La selezione di frammenti che compongono questo paesaggio narrativo è legata alla volontà di fare emergere i legami tra la scelta di vita di Silvana, la sua fedeltà alla terra, la vivacità della sua memoria, la ricchezza della cucina e della tavola contadina. Il racconto si apre con una dichiarazione di amore per la terra e si sviluppa in una successione d’immagini e descrizioni, tra colture stagionali e preparazione dei cibi legati alle stagioni e ai tempi del lavoro e della festa, legando fortemente il regime di parsimonia della famiglia contadina (un coniglio per 11 persone) alla ricchezza e creatività, connessa al ciclo delle stagioni, della sua cucina. Companatico, arrosto morto, intinto, pane santo e polenta fritta, panzanelle… il lessico di Silvana porta nel presente della narrazione il profondo solido patrimonio culturale delle campagne mezzadrili.